Immaginate che una musica fatta di tante musiche trovi finalmente un linguaggio perfetto, elegante, spesso riflessivo quanto solare, caldo, ma di un calore che spesso si scopre possibile anche in veste minimale. Immaginate che a portare a sintesi sia un collettivo di musicisti alla cui guida si trova un batterista senza ansie da protagonista. Se siete riusciti a immaginare tutto questo siamo sulla buona strada per dare un primo abbozzo di Immagine That, l'abum di
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data-original-title="" title="">Daniel Freedman pubblicato dalla Anzic Records e realizzato con altri quattro musicisti accomunati da altrettanta simpatia per la musica sincretica.
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data-original-title="" title="">Omer Avital al basso e Gilmar Gomes alle percussioni. In un panorama composito e che richiama a più riprese il grande bacino di suggestioni africano, sia per tinte solari che per vocalità (infatti sulla divertentissima "Baby Aya2 Freedman ha pensato di chiamare l'amica
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data-original-title="" title="">Angelique Kidjo, nome che gli amanti della world music di qualità conosceranno), il progetto del batterista prende strade che portano lontano, dai percorsi prima arabeggianti poi brasiliani di "Big in Yemen" all'essenziale marca visionaria di "Codex," con una chitarra elettrica che osa e si inerpica per assoli fluorescenti, con lenti bocca a bocca di nuovo fra le corde della chitarra e la voce in "Mindaho," fino agli accenni di un classico lento soul su cui immaginare una voce (magari Sam Cooke?) in "Love Takes Time" e una imprevedibile cover dei Radiohead, forse la band più lontana dal mondo musicale in cui ci siamo mossi fin qui.
Bello, appassionante e appassionato. Un album che vive di tante anime, di tanti stili e di tante integrazioni. Ma quasi senza farlo notare. E quindi senza farlo pesare.
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