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A dialogo con Roberto Ottaviano

L’improvvisazione è camminare al buio con la memoria di tutto quello che si è appreso, ovvero orientarsi senza una mappa rassicurante, e fare del viaggio in sé l’autentico obiettivo

Roberto Ottaviano
saxophone, sopranob.1957

John Coltrane
saxophone1926 - 1967

Steve Lacy
saxophone, soprano1934 - 2004
AAJ: Inizierei da lontano, da un tuo disco di oltre vent'anni orsono per la DIW, Black Spirits Are Here Again, realizzato in duo con

Mal Waldron
piano1925 - 2002
Roberto Ottaviano: Si tratta di un disco che in effetti mi è molto caro, perché dimostra che le cose fatte con il cuore e non eccessivamente meditate alla fine, in qualche modo, "arrivano." Di quel disco, recentemente, mi ha tessuto le lodi

Charles Lloyd
saxophoneb.1938
AAJ: Lirismo e melodia, appunto, aspetti che sono tuoi e che forse erano meno propri di Steve Lacy, che ha avuto senz'altro grande importanza nella tua formazione e che un paio di anni fa, in occasione del decennale della scomparsa, hai celebrato con un doppio disco con due formazioni diverse, Forgotten Matches. The Worlds Of Steve Lacy. Anche alla luce di questa tua diversità, puoi dirci qualcosa del tuo rapporto con Lacy?
RO: Potremmo passare dei giorni a parlare di questo, perché, dal punto di vista musicale, si può dire che la mia età adulta sia iniziata con Steve. Quando l'ho conosciuto io già suonavo, anche se non da moltissimo tempo. Lo conoscevo dai dischi, ma incontrarlo personalmente è stata una "botta" straordinaria: mi ha aperto orizzonti, ha suscitato riflessioni, mi ha stimolato a cercare delle chiavi nel mondo del jazz che, francamente, non so se altrimenti avrei mai trovato. Steve è stato un grande maestro attraverso il suono del suo strumento e la costruzione della sua musica. Immergendomi nel suono del suo sax soprano e nel suo pensiero musicale, attraversando il modo in cui era giunto alla costruzione di una identità molto forte ed una personalità musicale ricercatissima -nel modo di pensare la musica, i suoi ritmi, le melodie, le formazioni -ho trovato la chiave di lettura per identificare un jazz che fosse attuale e nel quale potermi riconoscere senza dover necessariamente prolungare la mia "formazione" anche nella maturità, continuando a fare il verso a qualcuno. Questo rapporto è vivo ancora oggi: quanto più io cerco di lasciarmelo alle spalle, di tagliare questo cordone ombelicale con Steve, tanto più lui si ripresenta puntuale: alle volte, quando ho in testa delle domande o sto pensando a delle ipotesi, nella vasta produzione di Steve trovo sempre delle risposte prive di equivoci. Per me questo è bello e importante, anche se al tempo stesso problematico, perché mi ritrovo il peso di questo insegnamento.
AAJ: Dicevi però una cosa che mi sembra rilevante e che secondo me emergeva già in quel disco con Mal Waldron: l'importanza che ha per te il lirismo, che forse in Lacy era assai meno centrale. Come hai fatto convivere il modo di intendere il jazz che ti veniva da Steve e quel lirismo che è invece un elemento che ti appartiene più direttamente, che ti viene probabilmente dalla tua tradizione culturale?
RO: Il mondo di Steve è originato dal più puro spirito newyorchese degli anni Trenta-Quaranta, nel senso che lui aveva conservato un carattere derivato dalla sua origine di ebreo di famiglia russa presto allontanata dalla madre patria. In quegli anni New York era caratterizzata da una forte commistione di culture entro la quale la componente ebraica era decisiva. L'ironia e il distacco, paradossalmente accoppiati a un coinvolgimento intellettuale e psicologico, peculiarità di Steve, erano una derivazione delle sue origini e di conseguenza un tratto della New York di quegli anni. Questa sua componente di ironica freddezza ha poi successivamente incontrato un mondo altrettanto enigmatico, quello giapponese, che nella sua musica si sente moltissimo. Tuttavia Lacy ha saputo disegnare questi due mondi con grande limpidezza e pulizia sonore, che sono poi quello che io ho incontrato e da cui sono stato affascinato. Ecco, quella pulizia, quella limpidezza, quella ricerca dell'intonazione assoluta e della modulazione attraverso i vari registri dello strumento io ho cercato di piegarli al clima mediterraneo, ovvero a tutta quella serie di influenze diverse a cui ero stato esposto in quanto uomo del sud, nato e vissuto in uno spazio posto all'incrocio tra i Balcani e il Maghreb, il Medio Oriente, influssi storicamente molto presenti nella mia terra, che io avverto costantemente e che sono una sorta di "respiro ancestrale" che incontra la mia musica. In questo modo ho avuto la possibilità di maturare un'identità musicale che si fa sentire in modo molto forte in quello che faccio, ma che si differenzia senz'altro dalla base identitaria di Lacy.
AAJ: Hai usato l'espressione "respiro ancestrale," che richiama il titolo di quel bellissimo e forse sottovalutato disco di qualche anno fa, Archtetics. Soffio primitivo, che sembrava evidenziare più di altri tuoi lavori gli aspetti di cui parlavi adesso rispetto alla lezione di Lacy, che pure vi si sentiva. Che valore ha avuto come tappa della tua evoluzione artistica?
RO: Senza alcun tipo di recriminazione, devo osservare che il mio spirito progettuale non ha mai incontrato molta fortuna. Ricordo a questo proposito un'altra formazione altrettanto lungimirante che ho animato negli anni Ottanta, i Six Mobiles, un sestetto di soli strumenti a fiato con cui facemmo tra l'altro un bell'omaggio a

Charles Mingus
bass, acoustic1922 - 1979
AAJ: Venendo al presente, l'ultimo tuo progetto è il tuo QuarkTet, formazione internazionale dai musicisti formidabili che hai riunito per realizzare un omaggio alla figura di John Coltrane, di cui quest'anno si celebra il cinquantenario della scomparsa. Come sei arrivato a scegliere quei musicisti e ad avvicinarti più direttamente alla figura di Coltrane?
RO: Da un po' di tempo stavo meditando di lasciare una traccia più consistente del modo in cui vivo il rapporto tra scrittura e libertà. Perché i miei dischi precedenti sono più elaborati dal punto di vista progettuale e della scrittura, mentre in questo ultimo lavoro, Sideralis, ho voluto scrivere sì delle cose, ma anche lasciare che altre fossero sottintese, recuperando quello spirito -a me altrettanto vicino -dell'improvvisazione libera, o non idiomatica, propria di alcuni musicisti inglesi e americani ai quali sono legato, e che io stesso ho molto praticato. Una sorta di sublimazione di questo spirito mi è sembrato il periodo finale dell'esperienza artistica di John Coltrane, il quale aveva raggiunto un enorme livello di concentrazione, di spiritualità, quasi di annullamento della concretezza terrena, attraverso uno sguardo rivolto al cosmo inteso come costante interrogazione, come vuoto eterno. Che poi credo sia ciò che ancora oggi viene ricercato, per esempio, da musicisti come

Wayne Shorter
saxophone1933 - 2023

Alexander Hawkins
pianob.1981

Gerry Hemingway
drumsb.1955

Michael Formanek
bass, acousticb.1958

Tim Berne
saxophone, altob.1954

Uri Caine
pianob.1956

Duke Ellington
piano1899 - 1974

Herbie Nichols
piano1919 - 1963

John Lee Hooker
guitar1917 - 2001
AAJ: Il QuarkTet non è però l'unico tuo progetto attuale. Al festival Musica Sulle Bocche di Santa Teresa di Gallura ne hai portati altri due diversi, tra cui quello abbastanza sorprendente dedicato a

Philip Glass
composer / conductorb.1937
RO: Quella è stata un po' una scommessa, propostami dal direttore artistico del festival

Enzo Favata
saxophone, sopranob.1956
AAJ: Dei Troi Griots invece cosa puoi dirci?
RO: Si tratta di un trio con

Giovanni Maier
bass, acoustic
Zeno De Rossi
drumsb.1970

Marco Colonna
clarinet, bassb.1978
AAJ: Hai però anche un altro tuo progetto in corso, il quartetto Pinturas, con il quale hai pubblicato quest'anno l'album Change the World.
RO: Pinturas viene da lontano, ha al suo attivo un disco che ormai ha una decina d'anni, Un Dio Clandestino, uscito per Dodicilune. Ci sembrava giusto scrivere un secondo capitolo di quella saga, che è legata al mondo della canzone, nel senso più ampio del termine, visto che in questo nuovo disco abbiamo ripreso brani di

David Sylvian
vocalsb.1958

Lou Reed
guitar1942 - 2013
Mirko Signorile
piano
Giorgio Vendola
bass, acousticAAJ: Adesso una domanda che che faccio un po' a tutti i musicisti che intervisto, per i miei interessi non solo musicali, ma anche filosofici sull'improvvisazione: cos'è per te questa pratica, come la definisici?
RO: Dal punto di vista musicale l'improvvisazione è una disciplina davvero molto singolare, che ha moltissime facce e sfumature. Si capisce che non è legata esclusivamente alla cultura del jazz, ma viene da molto lontano ed è presente in molte altre culture musicali. Ci sono improvvisatori che hanno sviluppato la capacità lessicale di inanellare una grande quantità di frasi una dietro l'altra, alcuni fra loro utilizzano quelli che in modo un po' dispregiativo vengono definiti "pattern," altri invece -pur muovendosi in modo analogo, e cioè sfruttando il concetto di sistema verticale (armonia) e orizzontale (melodia) -rimettono in gioco ogni volta la fraseologia. C'è poi un'altra categoria di improvvisatori, i cosiddetti "improvvisatori puri," che potrei descrivere attraverso le parole di un protagonista della storia del jazz che si ritiene uno di loro,

Lee Konitz
saxophone, alto1927 - 2020

Dexter Gordon
saxophone, tenor1923 - 1990
AAJ: Negli ultimi anni hai lavorato più volte con un musicista particolare, forse non adeguatamente valorizzato nel panorama musicale, qual è

Glenn Ferris
tromboneb.1950
RO: Conosco Glenn da tantissimi anni, ancora da prima che lavorasse anche lui con Steve Lacy: avevamo fatto assieme un disco del gruppo Nexus, Urban Shout, al quale partecipò anche

Enrico Rava
trumpetb.1939

Don Ellis
trumpet1934 - 1978

Frank Zappa
guitar, electric1940 - 1993

Ray Anderson
tromboneb.1952

Albert Mangelsdorff
trombone1928 - 2005

Wolter Wierbos
tromboneb.1957

Gianluigi Trovesi
saxophoneAAJ: Come ultima cosa volevo chiederti un approfondimento su un tema che hai già toccato di passaggio quando sottolineavi l'importanza che ha avuto per la tua evoluzione artistica il luogo dove sei nato e vivi, la Puglia, che definivi un crocevia di culture diverse. Descrizione che condivido e i cui tratti a mio parere sono fondamentali per la costruzione di un humus capace di stimolare la creatività e la produzione di cose innovative o almeno originali. Puoi dirci qualcosa di più del crogiuolo pugliese, che tu frequenti anche in molte altre esperienze non a tuo nome?
RO: La Puglia è ormai da parecchio tempo una terra ricchissima di talenti, e c'è anche una diversità interna di linguaggi, dialetti ed espressioni, per cui si va da una grande padronanza della tradizione -penso

Vito Di Modugno
organ, Hammond B3
Gianluca Petrella
tromboneb.1975

Gianni Lenoci
piano
Francesco Massaro
saxophoneb.1977
AAJ: Abbiamo parlato dei tuoi molti progetti in corso o di recente realizzazione, ma cosa altro bolle nelle tue numerose pentole?
RO: Proprio in questi giorni sto riportando in giro il mio progetto in solo, che ho presentato in anteprima quest'estate al festival Jazz By The Sea di Fano. Il progetto si chiama Lontano e mi vede completamente "a nudo," io e il mio sax soprano senza interventi elettronici o di altro genere, come va oggi molto di moda. Facendomi un po' di violenza, ho voluto riprendere questo progetto in solitudine, anche perché le strade da percorrere sono ancora moltissime. Il titolo rimanda a un punto di vista sul nomadismo e sulla migrazione, non tanto in relazione ai problemi dell'integrazione e dell'accoglienza, bensì come meditazione sul mondo che si è lasciato, sulle memorie che chi abbandona un contesto porta con sé. ? una cosa che mi è venuta in mente durante una collaborazione con la cantante albanese

Elina Duni
vocalsb.1981
AAJ: C'è qualcosa che vuoi dire a conclusione di questa conversazione?
RO: Solo una cosa, un pensiero sul jazz per me molto importante, e che vorrei condividere soprattutto con le nuove generazioni. Troppo spesso oggi ci si avvicina alla musica jazz attenti solo ai suoi aspetti esteriori: tecnica, repertori, anedottica, e via dicendo. Quello che mi preoccupa è che, esasperando questi aspetti, il musicista sta perdendo sempre più di vista un concetto estremamente correlato alla storia di questa musica, che in quanto tale, è vero, potrebbe non esprimere altro da se stessa, però nelle azioni, nelle scelte, nel modo di essere dei suoi protagonisti e nel loro modo di rappresentare il mondo circostante deve riconquistare il suo valore politico. Spesso, oggi, molti giovani tralasciano tutto questo, per pigrizia, per ignoranza, per disillusione, invece io penso (e sempre lo ripeto anche ai miei allievi del conservatorio) che non si debba mai dimenticare che, dalle espressioni più plateali -per esempio quelle di Mingus -fino a quelle più diplomatiche e meditate -per esempio in Ellington -il jazz è sempre stata una musica politica. Una musica che deve sì parlare al cuore, ma che, quando occorre, deve anche dare saper alzare i pugni!
Foto: Luca D'Agostino (Phocus Agency)
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