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Avanti o indietro?

Ci è capitato di recente di sentir definire

Keith Jarrett
pianob.1945
In realtà l'avanguardia l'ha praticata, Jarrett, ne ha fatto parte, anche se magari, in anni in cui la vedevamo come un qualcosa di fisiologicamente antigrazioso (i fatidici "due o tre fischi, due o tre note" dei detrattori del free), anticonsolatorio, antiaccomodante, antitutto, qualcuno può non essersene accorto.
Ce ne siamo accorti oggi (in realtà qualche mese fa) all'uscita di un album dello spessore di Hamburg '72 (ECM). E non tanto nei generosi profluvi pianistici che ovviamente innervano (e nobilitano) l'album, veramente maiuscolo, infilandosi non di rado in incunaboli estetico-espressivi che sempre più di rado il Nostro avrebbe arrischiato nel prosieguo, ma invece quando Jarrett soffia dentro al suo flautino etnico (che ci fa tornare alla mente il suo Ruta and Daitya, inciso -e uscito -all'epoca dei fatti in duo con

Jack DeJohnette
drumsb.1942

Don Cherry
trumpet1936 - 1995

Sam Rivers
saxophone, tenor1923 - 2011
Sei pezzi di durate variabili compongono il disco (con

Charlie Haden
bass, acoustic1937 - 2014

Paul Motian
drums1931 - 2011
Chissà se il Nostro (anzi, i Nostri, l'altro essendo ovviamente

Nell'attesa, dall'Inghilterra, grazie all'americana Cuneiform, risuonano due squilli di tromba. Il primo riguarda un'altra autentica icona dell'epoca in questione (diciamo grosso modo la prima metà degli anni Settanta), in cui frotte di giovani transfughi dal rock transumanavano verso il nuovo verbo jazzistico, più o meno tutti saliti sull'indispensabile treno (c'è sempre bisogno di un veicolo di trapasso) del Davis elettrico. Stiamo parlando dei

Soft Machine
band / ensemble / orchestrab.1966
A proposito di Seven, sarà appena il caso di segnalare l'indispensabile box quintuplo del 2010 (ma di cui siamo venuti in possesso ben più di recente) Soft Machine: Original Album Classics (Sony), che riunisce i cinque vangeli (uno in più di quelli canonici, già) che vanno da Third (1970) appunto a Seven. Per una manciata di euro (chi scrive ne ha sborsati appena 15) si (ri)entra in possesso di un'autentica scheggia di memoriapiù o meno individuale e più o meno collettivanonché dell'autentica crema del gruppo inglese, che forse, a voler essere iperselettivi, potrebbe persino arrestarsi (la crema) a Fifth (1972), cioè prima del rimpiazzo di

Elton Dean
saxophone1945 - 2006
Karl Jenkins
keyboardsb.1944
In Switzerland 1974 c'è ancora Jenkins, che però nel frattempo ha perso per strada un pezzo (il sax baritono) e ora si accontenta di insinuare soprano e oboe in un paio di momenti del set documentato dal CD. Per il resto è un gran trasudare di tastiere, e soprattutto di chitarra, nelle piuttosto fragorose (nonché fin troppo generose; o la generosità è altrui, di chi gli lascia tutto quello spazio?) mani di

Allan Holdsworth
guitar, electric1948 - 2017

Roy Babbington
bass, electricb.1940

John Marshall
drumsb.1952
Documento di indiscutibile valore, Switzerland 1974 non è tuttavia, come si sarà intuito, esente da pecche. Lo sperimentalismo a volte persino crudele soprattutto di Third e Fourth sembra lontano, le elucubrazioni più jazz-compatibili di Fifth (del resto tutt'altro che assenti anche nei due volumi precedenti) superate da un sound più ecumenico ed effettistico, esteriore, paradossalmente più prossimo alle atmosfere della

Il repertorio privilegia non a casoe del resto logicamentequanto comparirà di lì a un anno in Bundles (sette brani sui tredici totali), mentre dai volumi dal quinto al settimo provengono quattro brani e due sono gli inediti su album in studio. La lunga cavalcata iniziale ("Hazard Profile," di Jenkins) e il dittico centrale "The Man Who Waved at Trains"/"Peff" (entrambi di Ratledge), proprio per la citata concentrazione delle ance jenkinsiane, nonché qualche altro relitto vagante qua e là, sono le cose più felici dell'album, parlando del quale non possiamo non ricordare come la stessa Cuneiform avesse pubblicato a inizio 2014 '68 di

Robert Wyatt
drumsSempre da casa Cuneiform, dicevamo, ci arriva poi un altro squillo di tromba, Dawn, riguardante un ulteriore, indiscusso protagonista del British Jazz (lui anche a più pieno titolo) di quegli anni, lo sfortunato

Mike Osborne
saxophone, alto1941 - 2007

Mike Westbrook
composer / conductorb.1936
Chris McGregor
b.1936
John Surman
saxophoneb.1944

Alan Skidmore
saxophoneb.1942

Ornette Coleman
saxophone, alto1930 - 2015
Tali connotati si colgono nitidamente nei sei brani che formano il cuore di Dawn, tratti da due sedute d'incisione londinesi dell'agosto e dicembre 1970. Sono della partita due prìncipi della colonia sudafricana,
Harry Miller
bassb.1941

Herbie Hancock
pianob.1940
Storicamente parlando, la chicca del disco è comunque costituita dai quattropiù brevibrani che lo completano, registrati sempre a Londra nel giugno 1966 da un Mike Osborne non ancora venticinquenne (e con la succitata discendenza ornettiana ancora tutta da precisarsi: si avverte semmai di più l'impronta di un

Jackie McLean
saxophone, alto1932 - 2006

Pharoah Sanders
saxophone, tenor1940 - 2022

Carla Bley
piano1938 - 2023

Booker Little
trumpet1938 - 1961
Qualche sasso pensiamo di averlo gettato. A chiunque si sia imbattuto in queste righe il compito di coglierlo e rielaborarlo secondo la propria sensibilità. E il proprio vissuto.
Foto
Keystone/Getty Images (Soft Machine, 1970) e Tonino Tucci (Jarrett, homepage).
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