Home » Articoli » Live Review » Bergamo Jazz Festival 2019
Bergamo Jazz Festival 2019

Varie sedi
21-24.3.2019
Il Bergamo Jazz Festival non cessa di rinnovarsi nella continuità. ? stato questo il quarto e ultimo anno della direzione artistica di

Dave Douglas
trumpetb.1963

Maria Pia De Vito
vocalsb.1960
Erano in particolare due gli aspetti che hanno caratterizzato la quarantunesima edizione. Da un lato il coinvolgimento sempre più ampio di spazi storico-monumentali della Città Alta, perseguendo un vitale confronto fra espressioni, culture ed epoche diverse. Dall'altro la diversificazione delle proposte musicali dell'attualità jazzistica e non solo, fino ad includere due protagonisti assoluti della musica di matrice africana: Dobet Gnahoré e

Manu Dibango
saxophone1934 - 2020
Le serate del festival si sono aperte al Teatro Sociale con un opportuno omaggio al bergamasco

Gianluigi Trovesi
saxophoneNella carrellata di brani del primo set sono risultati invariati lo spirito, l'ironia delle contaminazioni culturali che caratterizzano i suoi brani. Il tutto sottoposto però a una decantazione emotiva e a una brevità esecutiva, che hanno sottoposto i temi a una parabola narrativa essenziale, rendendoli perfettamente leggibili nella lapidaria sintesi. A questa sono stati chiamati anche gli interventi solistici del leader e dei titolati partner: la pianista israeliana

Anat Fort
pianob.1970

Manfred Schoof
trumpetb.1936
Nel secondo set della serata è entrata in scena l'esperta norvegese Bergen Big Band sotto la direzione di Corrado Guarino, responsabile anche degli arrangiamenti; le parti soliste erano affidate soprattutto, oltre che al leader, agli stessi ospiti stranieri Maye e Schoof. Nella riproposizione della suite Dedalo, edita dalla Enja nel 2002, qualche aculeo della verve originaria è stato smussato e la grana degli impasti orchestrali è parsa a tratti più mainstream. D'altra parte nel confrontare versioni così lontane nel tempo non solo la nostra memoria costituisce necessariamente un filtro poco attendibile, ma soprattutto è chiaro che un'operazione di rivisitazione non possa che aderire al mutato spirito dei tempi. Nel complesso l'approccio di Trovesi in questa occasione celebrativa, attorniato dalla variegata compagnia sopra citata e con questo repertorio, è risultato non tanto nostalgico, quanto piuttosto improntato a una puntuale, distaccata e consapevole rimeditazione.
Altro tema di fondo è stato il confronto a distanza al Creberg Teatro fra due giganti americani del sassofono tenore:

Archie Shepp
saxophone, tenorb.1937

David Murray
saxophone, tenorb.1955
Il primo, che a maggio compirà ottantadue anni, dopo decenni di apparizioni per lo più demotivate e spente, in tempi recenti sembra tornato un entusiasta mattatore. A Bergamo, dove era sostenuto da un adeguato quartetto, il sound del suo tenore ha presentato le tipiche note strozzate e sdrucciole, memori di quando negli anni Sessanta e Settanta era un maestro del free. Il fraseggio invece è parso più possibilista e ripetitivo, ritorto su se stesso. Il soprano, petulante e abrasivo, è stato imboccato soltanto in "Revolution," suo brano dedicato alla nonna. La forma e lo spirito del blues, pervadente e terreno, sono emersi soprattutto quando Shepp ha cantato con eloquio e spaziature da predicatore, con quella sua voce tipica, gutturale e catramosa. Qua e là è spuntato un misticismo di estrazione coltraniana, come immancabile è stata la riproposizione di temi ellingtoniani. In definitiva oggi Shepp si presenta come il custode, il portatore di un compendio personale della storia del jazz.
La sera dopo, il concerto di David Murray, anch'egli in quartetto e su un repertorio di brani recenti o della sua giovinezza, non ha convinto in pieno. La sua pronuncia sassofonistica ha riproposto l'originale impostazione, pur perdendo un po' di smalto: un sound lirico e graffiante è stato modulato in estatiche estensioni di registro, in scorribande frenetiche, anche se a volte un po' di maniera. Ma soprattutto, questa pronuncia non è stata messa al servizio di un progetto sufficientemente audace e ben orientato. Ovviamente per volontà del leader, essa è stata invece sostenuta da un contesto ritmico atto a concretizzare un'idea canonica del jazz, con i pur bravi Dezron Douglas al contrabbasso ed Eric McPherson alla batteria impegnati a tramare ritmi regolari e uniformi. L'unico ad assecondare il sassofonista con un pianismo obliquo e coraggioso, di matrice post-tyneriana, è stato

David Bryant
pianoUn'altra presenza americana di spicco è stata quella del quintetto

Terence Blanchard
trumpetb.1962

Charles Altura
guitarOltre agli appuntamenti serali del main stage, il palinsesto concertistico del festival si presentava fitto e articolato in luoghi e orari diversi. Tanto che ragioni logistiche hanno purtroppo impedito di seguire adeguatamente la sezione "Scintille di jazz" curata da

Tino Tracanna
saxophone, tenorNella appartata ma molto accogliente Sala Piatti, costruita nel 1903 e riaperta nel 2003 dopo un prezioso restauro, sotto le mani di

Jacky Terrasson
pianob.1966
L'estroversa solo performance del pianista francese si è rifatta tutto sommato a una certa tradizione di matrice americana. Al contrario la proposta del duo

Sara Serpa
vocalsb.1979
La cantante non possiede doti vocali vistose: la sua emissione algida e ferma, senza vibrato e senza una matrice culturale evidente se non quella di una generica, sospesa contemporaneità, presenta un timing statico e un'intonazione non perfetta. Le sue interpretazioni, iniziate in modo stentato, hanno poi via via acquisito un senso preciso, in particolare nell'affrontare i propri original, prendendo sicurezza e un'intonazione esatta. Il chitarrista, al suo fianco come già nei due cd pubblicati, ha mostrato un linguaggio lineare e meditativo ma azzardato al tempo stesso, coerente con il canto della partner. In definitiva sono state appunto le loro composizioni sofisticate, dall'andamento melodico-armonico insolito e impegnativo, a risultare del tutto apprezzabili.
Come già su disco, nell'Horn Trio

Federica Michisanti
bass, acousticNel concerto mattutino all'Accademia Carrara si è replicato il sodalizio fra Pasquale Mirra e

Hamid Drake
drumsb.1955

Don Cherry
trumpet1936 - 1995
Se Drake è il maestro conclamato dalla lunga esperienza, che col tempo e in questo contesto in particolare sembra aver prosciugato e tenuto sotto controllo la sua irruenza africaneggiante (strepitoso il suo spazio solistico al canto e tamburo a cornice), il vibrafonista campano ha confermato di aver raggiunto l'autorevolezza e lo spessore del grande co-leader e improvvisatore.
Se a mio parere il duo MirraDrake ha costituito l'esperienza più emozionante del festival, la proposta più giovane, fresca, innovativa è venuta dal quartetto inglese Dinosaur, ascoltato all'Auditorium di Piazza Libertà. La sicurezza pulita e quasi distaccata della tromba della leader Laura Jurd, talora dal sound scandinavo talaltra dal piglio più deciso, ha spiccato sul contesto ritmico movimentato, ora esplicito ora cangiante, dalla moderata componente elettronica, fornito da pianoforte e sintetizzatori, basso elettrico e batteria: rispettivamente gli efficaci Elliot Galvin, Conor Chaplin e Corrie Dick. Il loro interplay e il loro atteggiamento improvvisativo, piacevole, intrigante e culturalmente eclettico, si è basato su head arrangements, che hanno collegato i vari temi in suite senza intervalli, rendendo molto fluido e naturale il transitare da un'idea tematica a un'altra, dai collettivi agli assoli, dai passaggi obbligati all'apertura dei momenti aleatori.
Foto di Luciano Rossetti (Phocus Agency)
Tags
Live Reviews
Gianluigi Trovesi
Libero Farnè
Italy
Bologna
Dobet Gnahoré
Manu Dibango
Anat Fort
Manfred Schoof
archie shepp
David Murray
David Bryant
Terence Blanchard
Tino Tracanna
Jacky Terrasson
Sara Serpa
Federica Michisanti
Pasquale Mirra
Hamid Drake
Don Cherry
laura jurd
Comments
PREVIOUS / NEXT
Support All About Jazz
